Descrizione

Questo libro cerca di raccontare l'esperienza statunitense in fatto di carceri e di pene, per consentire di conoscere che cosa andiamo importando. Il carcere come strumento di pena ha circa due secoli di vita. Mai, tuttavia, da quando è stata concepita come punizione, la prigione ha ricevuto un impulso applicativo così intenso come negli ultimi trent'anni. E ciò soprattutto negli Stati Uniti d'America, paese che, nel bene o nel male, rappresenta dalla fine della seconda guerra mondiale in poi il modello di riferimento per la gran parte del mondo. L'Italia non fa eccezione e americanizza sempre di più le sue regole di convivenza sociale. La legittima difesa, sullo stampo di ciò che da tempo avviene negli Stati Uniti, protegge da poco tempo anche in Italia chi uccide per difendere non la propria vita (o un bene parimenti importante), bensì un semplice bene patrimoniale. Assistiamo oggi all'avanzata di una filosofia, che si vuole tipicamente americana, della pena e dei suoi scopi, che fa del carcere un luogo in cui il reo, specie se recidivo, deve restare il più a lungo possibile, eventualmente anche per sempre, e ciò indipendentemente dalla gravità del suo reato o dalla sua voglia e capacità di cambiare. Una filosofia volta soltanto all'esclusione di chi viola la legge penale, senza attenzione per un suo possibile recupero (giudicato a priori irrealizzabile), che ha potuto portare negli USA a condannare al carcere a vita chi ruba 9 videocassette. Senza scopi rieducativi il carcere diventa nella nuova prospettiva luogo di pura segregazione. E' davvero questo il diritto delle pene che vogliamo?

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